Appunti di fotografia [125] – Lo sguardo nel ritratto

Una bellissima riflessione sull’educazione dello sguardo e della mente.

[…] credo che la cosa più importante non sia la tecnica, ma lo sguardo. Prendermi cura del mio sguardo è ciò che mi permette poi di ritrarre le persone non secondo stereotipi o cliché ma restituendo loro un “ascolto con gli occhi” rispettoso e autoriale.
Lo sguardo è nutrito da ciò che guardo (quali fotografe e fotografi, libri, mostre…) ma anche da tutto ciò che alimenta la mia interiorità: le letture, le conversazioni, gli incontri.

Facendo ritratti, il soggetto delle mie foto sono persone.
[…] Porto dentro “anagraficamente” una serie di stereotipi patriarcali sulle donne e sugli uomini. Quando ho iniziato a fotografare le persone, mi sono accorto che cercavo di ritrarre le donne secondo uno stereotipo di bellezza e seduzione, gli uomini secondo uno di forza e impenetrabilità. Lo davo per scontato e mi bastava.

Poi ho avuto la possibilità di rimettere profondamente in discussione ciò che mi sembrava “naturale”. L’ho fatto soprattutto ascoltando persone più giovani di me, in particolare donne femministe, leggendo libri, articoli, ascoltando podcast, visitando mostre (come per esempio una bellissima sul maschile alle “Rencontres” di Arles).
È stato doloroso. Mi sentivo del tutto inadeguato e superato. Poi, poco alla volta, ho sentito qualcosa cambiare, nuove curiosità nascere, un linguaggio che andava formandosi. Ora quando ho davanti una persona e la sto fotografando sento di essere molto più attento a ciò che lei comunica e molto meno preoccupato di farla aderire a uno stereotipo che ho in mente.

Come sempre, bellissima riflessione di Marco Ragaini tratta da una sua storia Instagram. Se non lo seguite ancora, fatelo perché scrive moltissimi spunti fotografici utili a chi vuole crescere in fotografia.

Appunti di fotografia [119] – La bellezza

Sto leggendo tantissime cose nelle stories Instagram di Marco Ragaini (se non lo seguite, correte a farlo perché merita!!). Questa settimana mi sono soffermato sul concetto di “bellezza” per la quale scrive:

La fotografia ha certamente a che fare con la ricerca della bellezza. E la fotografia di ritratto, con la ricerca della bellezza delle persone.
È però difficile dire cosa si intende, cosa intendo per bellezza. lo per esempio sento una distanza crescente tra ciò che trovo bello in una persona e i canoni che definiscono come dovrebbe essere.

Spesso si riduce la bellezza all’adeguamento a un modello estetico irraggiungibile che in realtà allontana dalla ricerca del Bello e porta a sentire inadeguatezza per come si è. Credo che queste siano constatazioni ovvie, che tutti sperimentiamo.

Lavorando spesso con attrici e attori, sento la responsabilità di rappresentarli come persone interessanti, ricche, espressive, contraddittorie, intriganti, magari anche inquietanti, ma non solamente o principalmente come “belle”. Credo che questo sia molto riduttivo, e forse nemmeno utile professionalmente.
Quando fotografo una persona molto vicina ai canoni estetici comuni penso sempre: “abbiamo un problema, è troppo bella”. Intendo dire che il rischio è di fare foto che fanno tutte presa solo su uno stesso aspetto, riducendo così questa persona a una sola dimensione e perdendo tutta la ricchezza che potrebbe esprimere.

La bellezza esiste. Tutti ne conteniamo, come esiste in un paesaggio o in un’opera d’arte. Si tratta solo di scoprirla e di lasciarla emergere.
Negli anni ho sentito di dover fare un lavoro importante su di me, uomo e pure boomer, per mettere in discussione e arricchire la mia idea di bellezza, i modelli che mi condizionano, la mia capacità di guardare. Mi sono accorto di essere come
“daltonico” vedevo le persone, specie le donne, sotto un’angolatura ristretta: farle venire belle in foto. Dove “belle” era ovviamente belle come sulle riviste.
Ascoltando, leggendo, guardando il lavoro di fotografe e fotografi, credo di aver coltivato il mio sguardo. Ciò che mettiamo in una foto è ciò che sappiamo vedere di una persona. Se il nostro sguardo è banale, lo sarà anche il ritratto.

Mi viene in mente anche un altro aspetto: la bellezza non è qualcosa che il fotografo “appiccica” sopra alla persona, con luci, effetti, pose e Photoshop, ma qualcosa che la persona lascia uscire, e che il fotografo sa cogliere.

Che dire, bellissimo. Spesso mi sono trovato nella condizione di volere a tutti i costi fare uscire dal ritratto quel concetto di bellezza, quasi ideale, da copertina. Spesso ho scelto una fotografia solo perché il soggetto lo vedevo “più bello”, ma dopo quella scelta che in fondo, riflettendoci, era forzata, sentivo un’attrazione inspiegabile verso un’altra fotografia più sincera, forse meno “bella”, ma più particolare, quella fotografia in cui la bellezza del soggetto non stava nel “bello” utopico ma in un’espressione, in un momento, in un tratto particolare, in uno sguardo, nell’armonia, nella luce, in qualcos’altro che sentivo inspiegabilmente più vicino.

Credo di essere sulla stessa linea di Marco, perché, senza nemmeno farlo apposta, in un’altra storia scrive:

Sento di dover fare un continuo lavoro su di me per educarmi a riconoscere la bellezza nelle persone.
Quando faccio un ritratto, cerco di raccontare qualcosa di bello sulla persona che ho di fronte.
E sembra quasi scontato dirlo.

In realtà la questione è molto più complessa perché ha a che fare con ciò che il mio occhio, il mio cervello, la mia sensibilità e la mia cultura riconoscono come “bello”. C’è un momento in cui avviene una sorta di allineamento, per cui riconosco che quella situazione, la luce, lo sguardo… sono “belli”. Allora scatto.

Ma quando avviene? Spesso sento che prevale un’idea di bello che mi viene dai canoni socialmente premiati (le persone che vengono considerate “belle”) o da un’estetica socialmente apprezzata (il tipo di foto che riceve molti like). Se riconosco quel tipo di situazione, sono portato a pensare che sia “bella” e a fotografarla.

In realtà, se mi ascolto più in profondità, mi accorgo che c’è una bellezza più profonda che sento molto più mia, e che spesso ha a che fare con l’imperfezione, con l’unicità, con qualcosa che rompe lo schema del prevedibile.

Questo avviene sopratutto fotografando le donne, forse per mio condizionamento culturale o anche perché sono sottoposte a maggiori vincoli nel canone socialmente accettato.

Non mi basta rappresentare una persona come “bella”, in un certo senso non mi interessa nemmeno che si veda “bella”, se questo termine significa conformarsi a degli standard.
lo vorrei vedere e fotografare le persone per la bellezza e l’armonia unica e specifica che portano in sé.

Appunti di fotografia [118] – Le facce e le pose nel ritratto

Altra bellissima riflessione tratta da stories di Marco Ragaini (se non lo seguite, correte a farlo!!) riguarda le espressioni e le pose nel ritratto:

Come esseri umani, siamo bravissimi a leggere le espressioni sui volti dei nostri simili. Distinguiamo le espressioni finte da quelle vere, riconosciamo l’imbarazzo in un sorriso che vorrebbe sembrare spontaneo e sentiamo la forza di uno sguardo in cui abita realmente una domanda. Quando guardiamo un ritratto, vediamo soprattutto cosa comunica la persona raffigurata, molto di più di quanto apprezziamo la bellezza formale della foto.

Per questo nei miei lavori di ritratto e di book non mi senterete mai dire “sorridi” o chiedervi una determinata espressione. Tanto meno vi dirò di immaginare situazioni tristi o allegre, di fare viaggi mentali o di recitare una parte. Per me l’espressione che il soggetto avrà in foto deve nascere da ciò che succede sul set e deve riflettere un’emozione reale.

Come durante una conversazione, una sessione di ritratto attraversa diversi momenti e suscita emozioni diverse e autentiche. Di questo dialogo il ritratto è traccia e testimonianza. Il mio compito è di creare e prendermi cura del clima e della relazione per consentire alla persona di essere se stessa. O di essere una parte di sé che magari non conosce ancora.

Come ci mettiamo “in posa” in una fotografia? La domanda non è banale perché la posizione del corpo non ha solo una funzione estetica o compositiva: dice molto della persona e si riflette in qualche modo anche nell’espressione. Il corpo “sa” interpretare e non solo esprimere una posizione. Così, il fatto di essere in una posa comoda o scomoda, chiusa o aperta, naturale o artificiosa, che ci appartiene o che ci è stata assegnata, influisce molto sul risultato del ritratto.

Personalmente, credo che la posa debba appartenere alla persona che viene ritratta. lo posso dare delle indicazioni compositive legate alla mia sensibilità o alla luce, ma desidero che la persona si riconosca nella posizione che assume, che il suo corpo la senta propria e la esprima al meglio.
La posa, in una sessione di ritratto, evolve come evolve la consapevolezza di sé e il percorso che si sta facendo. Così pian piano la persona si appropria sempre di più di se stessa e si mette in gioco nello spazio, esprimendo ciò che è non solo attraverso l’espressione del viso ma attraverso ogni muscolo.

Su questi punti si potrebbero fare ore di dibattito. Ho avuto esperienza di maestri di fotografia all’opera che guidavano in tutto e per tutto, dirigevano completamente corpo e volto per il raggiungimento del proprio scopo e della propria visione. Altri che lasciavano molto (e in alcuni casi troppo) spazio alla libertà.

A mio avviso, il fotografo dovrebbe innanzi tutto chiarire (chiarirsi) lo scopo. Qual è lo scopo del ritratto? C’è un messaggio che una committenza pretende? C’è un messaggio che tu ti vuoi imporre di dare? Definito ciò, come dico sempre io, si comincia a danzare insieme, verso una direzione. Le facce, le pose, la finzione, la naturalezza, la spontaneità dipende da entrambi. Fotografo e fotografato. L’abilità del fotografo nel condurre, e la fiducia del fotografato. La relazione che si crea tra i due e che plasma viso e corpo. Ecco forse la chiave è proprio questa, in gran parte.