Sto leggendo tantissime cose nelle stories Instagram di Marco Ragaini (se non lo seguite, correte a farlo perché merita!!). Questa settimana mi sono soffermato sul concetto di “bellezza” per la quale scrive:

La fotografia ha certamente a che fare con la ricerca della bellezza. E la fotografia di ritratto, con la ricerca della bellezza delle persone.
È però difficile dire cosa si intende, cosa intendo per bellezza. lo per esempio sento una distanza crescente tra ciò che trovo bello in una persona e i canoni che definiscono come dovrebbe essere.

Spesso si riduce la bellezza all’adeguamento a un modello estetico irraggiungibile che in realtà allontana dalla ricerca del Bello e porta a sentire inadeguatezza per come si è. Credo che queste siano constatazioni ovvie, che tutti sperimentiamo.

Lavorando spesso con attrici e attori, sento la responsabilità di rappresentarli come persone interessanti, ricche, espressive, contraddittorie, intriganti, magari anche inquietanti, ma non solamente o principalmente come “belle”. Credo che questo sia molto riduttivo, e forse nemmeno utile professionalmente.
Quando fotografo una persona molto vicina ai canoni estetici comuni penso sempre: “abbiamo un problema, è troppo bella”. Intendo dire che il rischio è di fare foto che fanno tutte presa solo su uno stesso aspetto, riducendo così questa persona a una sola dimensione e perdendo tutta la ricchezza che potrebbe esprimere.

La bellezza esiste. Tutti ne conteniamo, come esiste in un paesaggio o in un’opera d’arte. Si tratta solo di scoprirla e di lasciarla emergere.
Negli anni ho sentito di dover fare un lavoro importante su di me, uomo e pure boomer, per mettere in discussione e arricchire la mia idea di bellezza, i modelli che mi condizionano, la mia capacità di guardare. Mi sono accorto di essere come
“daltonico” vedevo le persone, specie le donne, sotto un’angolatura ristretta: farle venire belle in foto. Dove “belle” era ovviamente belle come sulle riviste.
Ascoltando, leggendo, guardando il lavoro di fotografe e fotografi, credo di aver coltivato il mio sguardo. Ciò che mettiamo in una foto è ciò che sappiamo vedere di una persona. Se il nostro sguardo è banale, lo sarà anche il ritratto.

Mi viene in mente anche un altro aspetto: la bellezza non è qualcosa che il fotografo “appiccica” sopra alla persona, con luci, effetti, pose e Photoshop, ma qualcosa che la persona lascia uscire, e che il fotografo sa cogliere.

Che dire, bellissimo. Spesso mi sono trovato nella condizione di volere a tutti i costi fare uscire dal ritratto quel concetto di bellezza, quasi ideale, da copertina. Spesso ho scelto una fotografia solo perché il soggetto lo vedevo “più bello”, ma dopo quella scelta che in fondo, riflettendoci, era forzata, sentivo un’attrazione inspiegabile verso un’altra fotografia più sincera, forse meno “bella”, ma più particolare, quella fotografia in cui la bellezza del soggetto non stava nel “bello” utopico ma in un’espressione, in un momento, in un tratto particolare, in uno sguardo, nell’armonia, nella luce, in qualcos’altro che sentivo inspiegabilmente più vicino.

Credo di essere sulla stessa linea di Marco, perché, senza nemmeno farlo apposta, in un’altra storia scrive:

Sento di dover fare un continuo lavoro su di me per educarmi a riconoscere la bellezza nelle persone.
Quando faccio un ritratto, cerco di raccontare qualcosa di bello sulla persona che ho di fronte.
E sembra quasi scontato dirlo.

In realtà la questione è molto più complessa perché ha a che fare con ciò che il mio occhio, il mio cervello, la mia sensibilità e la mia cultura riconoscono come “bello”. C’è un momento in cui avviene una sorta di allineamento, per cui riconosco che quella situazione, la luce, lo sguardo… sono “belli”. Allora scatto.

Ma quando avviene? Spesso sento che prevale un’idea di bello che mi viene dai canoni socialmente premiati (le persone che vengono considerate “belle”) o da un’estetica socialmente apprezzata (il tipo di foto che riceve molti like). Se riconosco quel tipo di situazione, sono portato a pensare che sia “bella” e a fotografarla.

In realtà, se mi ascolto più in profondità, mi accorgo che c’è una bellezza più profonda che sento molto più mia, e che spesso ha a che fare con l’imperfezione, con l’unicità, con qualcosa che rompe lo schema del prevedibile.

Questo avviene sopratutto fotografando le donne, forse per mio condizionamento culturale o anche perché sono sottoposte a maggiori vincoli nel canone socialmente accettato.

Non mi basta rappresentare una persona come “bella”, in un certo senso non mi interessa nemmeno che si veda “bella”, se questo termine significa conformarsi a degli standard.
lo vorrei vedere e fotografare le persone per la bellezza e l’armonia unica e specifica che portano in sé.

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