22 Lug 2023 |
Sto leggendo tantissime cose nelle stories Instagram di Marco Ragaini (se non lo seguite, correte a farlo perché merita!!). Questa settimana mi sono soffermato sul concetto di “bellezza” per la quale scrive:
La fotografia ha certamente a che fare con la ricerca della bellezza. E la fotografia di ritratto, con la ricerca della bellezza delle persone.
È però difficile dire cosa si intende, cosa intendo per bellezza. lo per esempio sento una distanza crescente tra ciò che trovo bello in una persona e i canoni che definiscono come dovrebbe essere.
Spesso si riduce la bellezza all’adeguamento a un modello estetico irraggiungibile che in realtà allontana dalla ricerca del Bello e porta a sentire inadeguatezza per come si è. Credo che queste siano constatazioni ovvie, che tutti sperimentiamo.
Lavorando spesso con attrici e attori, sento la responsabilità di rappresentarli come persone interessanti, ricche, espressive, contraddittorie, intriganti, magari anche inquietanti, ma non solamente o principalmente come “belle”. Credo che questo sia molto riduttivo, e forse nemmeno utile professionalmente.
Quando fotografo una persona molto vicina ai canoni estetici comuni penso sempre: “abbiamo un problema, è troppo bella”. Intendo dire che il rischio è di fare foto che fanno tutte presa solo su uno stesso aspetto, riducendo così questa persona a una sola dimensione e perdendo tutta la ricchezza che potrebbe esprimere.
La bellezza esiste. Tutti ne conteniamo, come esiste in un paesaggio o in un’opera d’arte. Si tratta solo di scoprirla e di lasciarla emergere.
Negli anni ho sentito di dover fare un lavoro importante su di me, uomo e pure boomer, per mettere in discussione e arricchire la mia idea di bellezza, i modelli che mi condizionano, la mia capacità di guardare. Mi sono accorto di essere come
“daltonico” vedevo le persone, specie le donne, sotto un’angolatura ristretta: farle venire belle in foto. Dove “belle” era ovviamente belle come sulle riviste.
Ascoltando, leggendo, guardando il lavoro di fotografe e fotografi, credo di aver coltivato il mio sguardo. Ciò che mettiamo in una foto è ciò che sappiamo vedere di una persona. Se il nostro sguardo è banale, lo sarà anche il ritratto.
Mi viene in mente anche un altro aspetto: la bellezza non è qualcosa che il fotografo “appiccica” sopra alla persona, con luci, effetti, pose e Photoshop, ma qualcosa che la persona lascia uscire, e che il fotografo sa cogliere.
Che dire, bellissimo. Spesso mi sono trovato nella condizione di volere a tutti i costi fare uscire dal ritratto quel concetto di bellezza, quasi ideale, da copertina. Spesso ho scelto una fotografia solo perché il soggetto lo vedevo “più bello”, ma dopo quella scelta che in fondo, riflettendoci, era forzata, sentivo un’attrazione inspiegabile verso un’altra fotografia più sincera, forse meno “bella”, ma più particolare, quella fotografia in cui la bellezza del soggetto non stava nel “bello” utopico ma in un’espressione, in un momento, in un tratto particolare, in uno sguardo, nell’armonia, nella luce, in qualcos’altro che sentivo inspiegabilmente più vicino.
Credo di essere sulla stessa linea di Marco, perché, senza nemmeno farlo apposta, in un’altra storia scrive:
Sento di dover fare un continuo lavoro su di me per educarmi a riconoscere la bellezza nelle persone.
Quando faccio un ritratto, cerco di raccontare qualcosa di bello sulla persona che ho di fronte.
E sembra quasi scontato dirlo.
In realtà la questione è molto più complessa perché ha a che fare con ciò che il mio occhio, il mio cervello, la mia sensibilità e la mia cultura riconoscono come “bello”. C’è un momento in cui avviene una sorta di allineamento, per cui riconosco che quella situazione, la luce, lo sguardo… sono “belli”. Allora scatto.
Ma quando avviene? Spesso sento che prevale un’idea di bello che mi viene dai canoni socialmente premiati (le persone che vengono considerate “belle”) o da un’estetica socialmente apprezzata (il tipo di foto che riceve molti like). Se riconosco quel tipo di situazione, sono portato a pensare che sia “bella” e a fotografarla.
In realtà, se mi ascolto più in profondità, mi accorgo che c’è una bellezza più profonda che sento molto più mia, e che spesso ha a che fare con l’imperfezione, con l’unicità, con qualcosa che rompe lo schema del prevedibile.
Questo avviene sopratutto fotografando le donne, forse per mio condizionamento culturale o anche perché sono sottoposte a maggiori vincoli nel canone socialmente accettato.
Non mi basta rappresentare una persona come “bella”, in un certo senso non mi interessa nemmeno che si veda “bella”, se questo termine significa conformarsi a degli standard.
lo vorrei vedere e fotografare le persone per la bellezza e l’armonia unica e specifica che portano in sé.
15 Lug 2023 |
Altra bellissima riflessione tratta da stories di Marco Ragaini (se non lo seguite, correte a farlo!!) riguarda le espressioni e le pose nel ritratto:
Come esseri umani, siamo bravissimi a leggere le espressioni sui volti dei nostri simili. Distinguiamo le espressioni finte da quelle vere, riconosciamo l’imbarazzo in un sorriso che vorrebbe sembrare spontaneo e sentiamo la forza di uno sguardo in cui abita realmente una domanda. Quando guardiamo un ritratto, vediamo soprattutto cosa comunica la persona raffigurata, molto di più di quanto apprezziamo la bellezza formale della foto.
Per questo nei miei lavori di ritratto e di book non mi senterete mai dire “sorridi” o chiedervi una determinata espressione. Tanto meno vi dirò di immaginare situazioni tristi o allegre, di fare viaggi mentali o di recitare una parte. Per me l’espressione che il soggetto avrà in foto deve nascere da ciò che succede sul set e deve riflettere un’emozione reale.
Come durante una conversazione, una sessione di ritratto attraversa diversi momenti e suscita emozioni diverse e autentiche. Di questo dialogo il ritratto è traccia e testimonianza. Il mio compito è di creare e prendermi cura del clima e della relazione per consentire alla persona di essere se stessa. O di essere una parte di sé che magari non conosce ancora.
Come ci mettiamo “in posa” in una fotografia? La domanda non è banale perché la posizione del corpo non ha solo una funzione estetica o compositiva: dice molto della persona e si riflette in qualche modo anche nell’espressione. Il corpo “sa” interpretare e non solo esprimere una posizione. Così, il fatto di essere in una posa comoda o scomoda, chiusa o aperta, naturale o artificiosa, che ci appartiene o che ci è stata assegnata, influisce molto sul risultato del ritratto.
Personalmente, credo che la posa debba appartenere alla persona che viene ritratta. lo posso dare delle indicazioni compositive legate alla mia sensibilità o alla luce, ma desidero che la persona si riconosca nella posizione che assume, che il suo corpo la senta propria e la esprima al meglio.
La posa, in una sessione di ritratto, evolve come evolve la consapevolezza di sé e il percorso che si sta facendo. Così pian piano la persona si appropria sempre di più di se stessa e si mette in gioco nello spazio, esprimendo ciò che è non solo attraverso l’espressione del viso ma attraverso ogni muscolo.
Su questi punti si potrebbero fare ore di dibattito. Ho avuto esperienza di maestri di fotografia all’opera che guidavano in tutto e per tutto, dirigevano completamente corpo e volto per il raggiungimento del proprio scopo e della propria visione. Altri che lasciavano molto (e in alcuni casi troppo) spazio alla libertà.
A mio avviso, il fotografo dovrebbe innanzi tutto chiarire (chiarirsi) lo scopo. Qual è lo scopo del ritratto? C’è un messaggio che una committenza pretende? C’è un messaggio che tu ti vuoi imporre di dare? Definito ciò, come dico sempre io, si comincia a danzare insieme, verso una direzione. Le facce, le pose, la finzione, la naturalezza, la spontaneità dipende da entrambi. Fotografo e fotografato. L’abilità del fotografo nel condurre, e la fiducia del fotografato. La relazione che si crea tra i due e che plasma viso e corpo. Ecco forse la chiave è proprio questa, in gran parte.
3 Giu 2023 |
La fotografia è esplorazione di territori, anche nel ritratto, che è un territorio dove succedono cose o dove possiamo far succedere cose soprattutto con la luce.
[…] Alcune volte sarà più facile, altre volte sarà più difficile. […]
In questa esplorazione scopriremo luci che magari non sapevamo esistere in quel posto e questo è tutto un bagaglio di conoscenza che ci verrà sicuramente utile.
Toni Thorimbert
27 Mag 2023 |
Il titolo di questo appunto è un po’ provocatorio, ma è nato dalla lettura di un estratto del discorso “La fotografia: oggetto teorico e pratica sociale” pronunciato da Umberto Eco al XXXVIII Congresso dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici. Lo riporto qui di seguito:
[…] ho smesso di fotografare quando ormai da almeno dieci anni avevo una macchina fotografica, nel 1961. Perché, avendo già dato la tesi di laurea sull’estetica medioevale, ma continuando sempre a essere interessato a quei secoli, nel ‘61 ho fatto un viaggio, con altri tre amici, attraverso tutte le abbazie romaniche e le cattedrali gotiche francesi. Naturalmente mi ero portato dietro una macchina fotografica e ho fotografato tutto, incessantemente. Le foto sono orribili, non mi servono e non mi sono mai servite, ho piuttosto comperato dei libri dove c’erano foto migliori, e di quel viaggio non ricordo più niente. Ero troppo occupato a fotografare e non ho guardato. Da quel giorno non ho mai più fatto fotografie in vita mia, partendo dal principio che ci sarebbe sempre stato qualcuno che le faceva al posto mio, e infatti ce ne sono sempre più di quanto desideri o abbia bisogno…
Quindi l’eccesso di possibilità fotografica può ledere la nostra memoria, perché la nostra memoria sopravvive quando, in termini fotografici, è grandangolare. Se invece andiamo in giro col telefonino per fotografare tutto quello che pare interessarci, diventa puntuale. Cioè del potenziale grandangolo che potevamo ricordare abbiamo ricordato solo quello che abbiamo scelto in quel momento e ci rimane solo quel documento lì. Anche questa riflessione mi pare profondissima ma non so a che risultati possa portare.
Evidenzio in grassetto la frase secondo me più emblematica e che mai come oggi risulta appropriata:
di quel viaggio non ricordo più niente. Ero troppo occupato a fotografare e non ho guardato.
Sicuramente si può riflettere a lungo su questo paradosso della fotografia vista come distruttrice della memoria, quando invece è riconosciuta universalmente come portatrice di memoria.
20 Mag 2023 |
I fotografi di ritratto dimenticano, nella presunzione di guardare l’altro, che sono a loro volta guardati.
Il soggetto ha già capito tutte le dinamiche dopo un’ora. E’ un punto di vista estremamente privilegiato.
Toni Thorimbert
Come sempre il grande Thorimbert con poche parole ti apre un mondo. Ti fa riflettere su un aspetto che solo apparentemente può sembrare scontato ma che di scontato non ha niente. Ti fa capire tra le altre cose, quanto in realtà può essere difficile fare il “ritrattista” e quanto la paura di essere giudicato possa prendere il sopravvento. Ecco, forse, quella dimenticanza può servire a tenere lontana la paura, ma, al contrario, può aprirti a nuove opportunità.
Appunto preso dalla diretta Instagram di Settimio Benedusi con Toni Thorimbert del 19 maggio 2023.