Appunti di fotografia [143] – Omaggio a Mimmo Jodice

Appunti tratti dal documentario “Un ritratto in movimento. Omaggio a Mimmo Jodice” di Mario Martone. 2023.
Link: https://www.raiplay.it/video/2023/12/Un-ritratto-in-movimento-Omaggio-a-Mimmo-Jodice .

Queste sono esattamente (a meno di piccolissime correzioni) le frasi pronunciate da Mimmo Jodice nel documentario.
Erano intervallate da interventi ad esempio di Angela Jodice, Antonio Biasiucci, Stefano Boeri, Marino Niola,… che non ho inserito. Anche per questo vale la pena di guardarlo integralmente.

Nella mia famiglia non ci sono tracce di fotografi, non ho fatto apprendistato nelle botteghe, non ho frequentato scuole di fotografia anche perché all’epoca non ce n’erano. È stata proprio una scoperta occasionale, che però si inserisce in una mia disponibilità per l’arte.
La fotografia è stato un innamoramento. Il momento magico, posso definirlo così, è stato l’arrivo a casa, in maniera molto occasionale, di un piccolo ingranditore per stampare le foto.
Erano gli anni, inizi anni sessanta, e all’epoca c’era l’abitudine di stampare in casa propria le fotografie. Comincio a sperimentare, credendo fortemente che la fotografia avesse diritto ad essere considerata un linguaggio dell’arte.

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I momenti piu belli per la mia formazione sono stati quelli vissuti con gli artisti delle avanguardie degli anni sessanta e settanta. Rauschenberg, Warhol, Beuys, Vito Acconci, tantissimi… Jasper Johns.
Gli artisti all’epoca non esponevano le opere già preparati, cioè non venivano a Napoli e attaccavano i quadri alle pareti o le sculture nella galleria, molte volte l’arte diveniva in presenza del pubblico, e quindi in questo clima, la musica, il cinema, tutto… c’era un clima di rinnovamento, ecco, io non potevo fare la foto per documentare… comincio a sperimentare…

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Tutto parte dalla contestazione, sessantotto, sessantanove, non potevo rimanere estraneo, indifferente. E quindi mi dedico, anche io, mi associo a questi movimenti, e cominciai a fotografare la realtà di Napoli negli ospedali. Era l’epoca in cui si prospettava la legge Basaglia per la chiusura dei manicomi, le indagini sulle scuole, nelle fabbriche, nelle condizioni delle periferie, di disagio assoluto.

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È maturata in me questa mia maniera di guardarmi intorno, e questo modo di fare me lo porto dietro docunque vado. Le mie fotografie di Tokyo, di Parigi o di Boston, dove ci sono dei libri su queste città, sono come le vedute di Napoli in qualche modo. È una città che sta lì, che la si vede, la si legge in tutti i particolari, ma è ferma, è congelata, non appartiene alla quotidianità.

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Nasce l’idea di rivedere la città, ma lontana, fuori dalla realtà. Resta la scelta del dolore, mentre prima l’uomo era l’elemento centrale di questa narrazione, e dopo, niente, comincio a guardare intorno… questa realtà ormai senza speranza, il vuoto, questa dimensione di sconfitta.

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In mare c’erano alcune barche, sulla spiaggia c’erano dei bagnanti, gli ombrelloni, è una realtà che certamente non coincideva con questo mio bisogno di parlare con immagini silenziose, senza tempo, sospese. E quindi ho rinunciato a questa fotografia e ho proseguito il mio lavoro. Ma l’immagine della sedia sulla spiaggia me la sono portata dentro, l’ho elaborata mentalmente. E alla fine è successo che la mattina dopo all’alba sono ritornato sulla spiaggia. La sedia era ancora lì, in una luce magica, un attimo prima che sorgesse il sole, tutto sembrava coincidere con questa mia necessità di un’immagine sospesa, che riguardasse veramente un tempo infinito, e quindi è nata questa fotografia.

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Vedere bene. Il risultato eccellente lo si può avere solamente se c’è la luce che accarezza adeguatamente il modellato delle forme.

Come li scopro i soggetti da fotografare, come li vedo? Vuol dire che non solo li vedo perché sono interessanti come contenuto, come valore estetico, ma perché sono rese dalla luce che c’è in quel momento, che può essere anche la luce di una finestra.

Tutto quello che succede in fotografia, succede sempre prima in visione. Cioè io vedo, e o mi muovo e mi aggiusto io rispetto al soggetto o rispetto le luci, o quando è possibile addirittura giro, sposto il soggetto, lo oriento in maniera da avere la migliore percezione fotografica possibile, e poi passo a fare la foto.

I tempi sono due. Il tempo della ripresa e il tempo della stampa della fotografia. In camera oscura io posso ampliare questa dimensione estetica guardando bene in camera oscura come accentuare o diminuire la quantità di luce. Diminuirla mettendo dei pezzettini di cartoncino su dei piccoli sottili ferri filati, e sottrarre la luce che viene proiettata sulla carta fotografica. Quindi io posso continuare a modellare il risultato anche in camera oscura. Ho isolato quella visione sapendo che mentalmente poi intervengo perché scopro, copro, tolgo, aggiungo. Io ho passato dei tempi lunghi in camera oscura, muovendo, anche a quando muovevo le mani sulla proiezione dell’ingranditore verso la carta fotosensibile, io intervenivo con la mano ma seguendo la musica che ascoltavo, perché in camera oscura ho un’amplificazione di altissima qualità, ho dei diffusori acustici importantissimi, e mi sono goduto le serate più belle lavorando ed eccitandomi con la musica. Mi esalta, è importantissima.

La luce con una dominante cromatica si può usare solo col bianco nero, bisognerebbe stamparla a colori per usare le luci colorate. Che io le usavo perché col bianco nero la luce dell’ingranditore anziché essere neutra, avresti una dominante, non colorata, una dominante cromatica. Poteva servire a stampare in maniera più contrastata, o in maniera più morbida, più scivolata. Praticavo questa fotografia in camera oscura tutte le notti. Quindi avevo assimilato tutto, mi appartenevano intimamente. E poi facevo ogni volta un provino, cioè su una fotografia da stampare grande, io ne strappavo un pezzo di carta, Io mettevo non so sulla faccia del volto, e vedevo il risultato che si poteva ottenere, e quindi eventualmente cambiare contrasto, cambiare il tempo di esposizione.

Solo in bianco nero. Io non ho fotografato a colori… ho fatto pure delle foto a colori, lungo la mia lunga esistenza. Però non avevo la possibilità di stamparle in camera oscura, quindi solo ho accentuato il bianco nero. Il 95% di tutto il mio lavoro è bianco nero.

Organizzo la ripresa in maniera da avere un tempo di esposizione lungo alcuni secondi. Si apre l’otturatore della macchina fotografica, resta qualche secondo e poi si chiude. Durante questi secondi, muovermi o io con la macchina fotografica, o muovere il soggetto. Anche se è un soggetto piccolo, farlo ruotare in modo da avere questa sorta di scia luminosa. Anche l’ingranditore si può muovere, nel senso, l’obiettivo ruotarlo, alzarlo, abbassarlo.

Io ho fatto cose incredibili per portare la fotografia a questa dimensione di arte contemporanea. Ho cominciato proprio a lasciare la foto incompiuta. Ecco. Volutamente lo strappo che era una cosa brutta, una cosa negativa, io qua lo utilizzavo come un fatto positivo. Questa casa che a un certo punto vola verso questa dimensione di…

Qui lo strappo non è strappo, ma è un taglio, per cui intervengo sull’orizzonte del mare, e quindi lo rendo curvo. Quindi ho fatto una foto… ho stampato… queste le stampavo sempre tutte io, una più scura, e una più chiara, su carte diverse, proprio per mettere in evidenza questo orizzonte curvato. E quante foto ho strappato che forse valeva la pena di non strapparle.

Prima di arrivare agli strappi ho fatto gli interventi sulle foto in tanti modi. Le ho bruciate, gli ho messo le impronte digitali. Ho fatto veramente interventi… massacrando, cioè non erano per arricchire le foto, ma proprio per distruggerle.

Come tutte le altre cose, come tutti gli altri temi, c’era una discordanza tra le foto che si facevano, su questo tema del nudo, e quello che facevano gli artisti che dipingevano il nudo. C’erano due modi diversi. L’artista faceva le cose più spregiudicate, il fotografo cercava sempre di rimanere in un senso di pudore, che alla fine finiva per modificare la bellezza del tema.
Il critico Cesare Zavattini mi chiese di vedere i miei nudi… io avevo preparato questo incontro con lui mostrando queste foto tenute gelosamente chiuse in delle cartelle che non poteva vedere nessuno, e lui scrisse questo pezzo molto bello che si chiamava Nudi… Mimmo Jodice… “Nudi dentro cartelle ermetiche”. E quindi queste cose vennero smascherate. Vennero poi… furono occasione di una mostra che io non osavo fare perché avevo quel certo pudore…

Vera fotografia, io ho utilizzato tantissimi pensieri miei, tantissime riflessioni mie sulla realtà come possibilità di esplorazione fotografica.

Questa era la carta fotografica che si usava all’epoca, la Ferrania, negli anni 70. Non l’ho mai aperta. Qui dentro ci sono 10 fogli di carta sensibile che io potevo utilizzare stampando su questa carta delle belle foto, invece no, io non l’ho toccata, l’ho lasciata così, ho firmato.

Qua stiamo parlando del ’66.

Deformati… C’è tutto un intervento compositivo che non è una semplice foto ingrandita.

Questa mi piace ancora oggi. C’è una concettualità in partenza. Ho fatto la fotografia della mano con un taglierino, con la lama, che stava tagliando. Poi ho stampato la foto e poi ho tagliato la fotografia in coincidenza con la lama.

(Una foto di una carta d’identità e la foto della persona applicata, quindi in rilievo) Questa immagine delle cose e le cose stesse che si sommano.

Io ho fatto sempre con grande eccitazione tutte le foto che ho fatto, le rifarei tutte da capo. Alcune foto non le ho mai presentate, le ho lasciate da parte, non dico che le ho strappate, ma stanno in archivio da qualche parte, perché dopo averle fatte, non mi sembrava mi appartenessero veramente, fino in fondo, quindi, le ho messe da parte, e staranno da qualche parte conservate.

Io lascio un’eredità, è il caso di dire, un’eredità perché lascio questa camera oscura, tutti i materiali sensibili, tutte le pellicole… (sospiro) vorrei ricominciare da capo.