Appunti di fotografia [49] – Davanti al dolore degli altri

Appunti presi durante la lettura del libro di Susan Sontag “Davanti al dolore degli altri”.

Durante i combattimenti tra serbi e croati all’inizio delle recenti guerre nei Balcani, le stesse fotografie di bambini uccisi nel bombardamento di un villaggio venivano mostrate sia nelle conferenze di propaganda serbe sia in quelle croate. Bastava cambiare la didascalia e la morte di quei bambini poteva essere utilizzata innumerevoli volte.

[…] Il sottotitolo della mostra, A Democracy of Photographs, suggeriva che alcune opere dei dilettanti erano altrettanto valide di quelle presentate dai professionisti più esperti. E così era – il che prova qualcosa sulla fotografia, anche se non necessariamente sulla democrazia culturale. Tra le arti maggiori, la fotografia è l’unica in cui la formazione professionale e gli anni di esperienza non garantiscono un vantaggio incolmabile su chi è impreparato o inesperto – e le ragioni sono molte, dal grande ruolo giocato dal caso (o dalla fortuna) nello scattare una foto, alla predilezione per ciò che è spontaneo, rozzo o imperfetto. (Nella letteratura non esiste un simile grado zero, perché in letteratura praticamente nulla è dovuto al caso o alla fortuna, […]; e così nelle arti sceniche, nelle quali è impossibile raggiungere un vero successo senza un’adeguata preparazione e una pratica giornaliera; o nella cinematografia, su cui non influiscono in misura significativa i pregiudizi antiartistici tipici di molta fotografia artistica contemporanea).

[…] fondazione nel 1947, a Parigi, […], di una cooperativa, l’agenzia fotografica Magnum, Lo scopo immediato della Magnum – che presto divenne il più influente e prestigioso consirzio di fotogiornalisti – era di ordine pratico: fare da tramite fra temerari fotografi indipendenti e le riviste illustrate che li utilizzavano come inviati. […] lo statuto della Magnum, […] assegnava esplicitamente ai fotogiornalisti una missione ben più ampia e gravata da una responsabilità morale: raccontare il proprio tempo, di guerra o pace che fosse, in qualità di testimoni equanimi e privi di pregiudizi sciovinisti.

[…] Ma non c’è crimine più grave della guerra, e dalla metà degli anni ’60 quasi tutti i più noti fotografi di guerra hanno pensato che fosse loro compito mostrarne il “vero” volto.

Le intenzioni del fotografo non determinano il significato della fotografia, che avrà vita propria, sostenuta dalle fantasie e dalle convinzioni delle varie comunità che se ne serviranno.

Il desiderio di immagini che mostrano corpi sofferenti sembra essere forte quasi quanto la bramosia di immagini che mostrano corpi nudi.

Forse le sole persone che hanno il diritto di guardare immagini di sofferenze reali così estreme sono quelle che potrebbero fare qualcosa per alleviarle – per esempio, i chirurghi dell’ospedale militare in cui la foto è stata scattata – o che da questa immagine potrebbero imparare qualcosa. Noialtri, che lo vogliamo o no, siamo tutti voyeur.

[…] una scena orripilante ci invita a essere meri spettatori o vigliacchi, incapaci di guardare.

Ma l’immagine fotografica, anche nella misura in cui è una traccia (e non una costruzione ottenuta combinando diverse tracce fotografiche), non è mai solo il trasparente resoconto di un evento. E’ sempre un’immagine che qualcuno ha scelto; fotografare significa inquadrare, e inquadrare vuol dire escludere. La pratica di ritoccare l’immagine […] è sempre stato possibile che una fotografia distorcesse la realtà. Una fotografia, ma anche un documento filmato […] sono giudicati falsi quando si scopre che ingannano lo spettatore riguardo alla scena che pretendono di raffigurare.

Vogliamo che il fotografo sia una spia nella casa dell’amore e della morte, e che i suoi soggetti siano inconsapevoli della macchina fotografica, presi “alla sprovvista”. Neppure la più sofisticata comprensione di ciò che la fotografia è, o può essere, potrà mai attenuare il piacere che sa darci l’immagine di un evento inatteso, catturato da un accorto fotografo nel momento stesso in cui avviene.

[…] I cambogiani e le cambogiane di ogni età, tra cui numerosi bambini, fotografati a un paio di metri di distanza, di solito a mezzo busto, sono […] per sempre intenti a guardare la morte, per sempre sul punto di essere assassinati, per sempre vittime di un’ingiustizia. E l’osservatore si ritrova nella stessa posizione del tirapiedi dietro l’obiettivo; l’esperienza è nauseabonda.

[…] sottolineare come la ferocia della guerra assuma dimensioni tali da distruggere ciò che fa di una persona un individuo, un essere umano. Ma questo, ovviamente, è l’aspetto che la guerra assume quando la si vede da lontano, sotto forma di immagine. Le vittime, i parenti afflitti, i consumatori di notizie – ognuno di essi ha una suo propria vicinanza o distanza dalla guerra. […] Nel caso di soggetti che ci toccano più da vicino, ci aspettiamo più discrezione da parte del fotografo.

Queste immagini sono di una nettezza impressionante. Con l’ausilio di una lente di ingrandimento, è possibile distinguere persino i lineamenti dei soldati trucidati. Non vorremmo certo trovarci nella galleria quando una delle donne chine a osservarle dovesse riconoscere il marito, il figlio o il fratello tra quei corpi immobili e privi di vita, pronti per le fosse che si spalancano per loro.

Non c’è guerra senza fotografia, osservò nel 1930 un insigne esteta della guerra, Ernst Jünger, perfezionando così l’irresistibile identificazione tra macchina fotografica e arma da fuoco, tra l’atto di “mirare” a un soggetto e quello di mirare a un essere umano. Fare la guerra e scattare fotografie sono attività assimilabili: “La stessa intelligenza che produce armi in grado di localizzare con estrema precisione il nemico nel tempo e nello spazio”, scrisse Jünger, “si applica anche al conservare nei minimi dettagli i grandi eventi storici”.

L’esibizione fotografica delle crudeltà inflitte a individui dalla pelle più scura in paesi esotici continua questo genere di offerta, ignorando le considerazioni che scoraggiano comportamenti analoghi quando le vittime della violenza sono nostre; poiché l’altro , anche quando non è un nemico, è considerato soltanto qualcuno da vedere, e non qualcuno che (come noi) vede.

L’arte trasforma per definizione, ma le fotografie che documentano eventi disastrosi e deprecabili sono criticate aspramente se appaiono “estetiche”; vale a dire troppo simili all’arte. Il duplice potere che ha la fotografia – di produrre documenti e di creare opere d’arte – ha dato origine a una serie di affermazioni estremistiche su ciò che i fotografi dovrebbero o non dovrebbero fare. Negli ultimi tempi, la più diffusa è quella che contrappone questi suoi due poteri. Le fotografie che raffigurano la sofferenza non dovrebbero essere belle, così come le didascalie non dovrebbero essere moraleggianti. In quest’ottica, infatti, una bella fotografia sposta l’attenzione dalla gravità del soggetto rappresentato al medium in sé, compromettendo in tal modo il carattere documentario dell’immagine. Una fotografia del genere invia segnali contraddittori. “Fermate tutto ciò”, ingiunge. Ma al tempo stesso esclama: “Che spettacolo!”.

[…] soggetti impotenti, ridotti alla loro impotenza. E’ significativo, d’altronde, che tali soggetti non siano identificati nelle didascalie. Un ritratto che rifiuta di fare il nome del proprio soggetto diventa complice, sia pure inavvertitamente, di quel culto della celebrità che ha alimentato un’insaziabile fame di fotografie di genere opposto: concedere il nome soltanto a chi è famoso equivale, infatti, a ridurre tutti gli altri a esempi rappresentativi di un’etnia, di un’occupazione o di una condizione di disagio.

Un tempo, quando l’immagine esplicita era ancora poco diffusa, si credeva che il solo mostrare qualcosa che doveva essere visto, avvicinandoci così a una realtà dolorosa, avrebbe di sicuro spinto gli osservatori a sentirsi maggiormente partecipi. Ma in un mondo in cui la fotografia viene efficacemente posta al servizio delle manipolazioni consumistiche, è impossibile dare per scontato l’effetto provocato dall’immagine di una scena penosa.

I fotografi-testimoni forse ritengono più corretto dal punto di vista morale rendere lo spettacolare non spettacolare.

Spesso qualcosa ha, o sembra avere, un aspetto “migliore” in fotografia. Anzi, una delle funzioni della fotografia è proprio quella di migliorare l’aspetto delle cose. (Di conseguenza, siamo sempre delusi da una fotografia poco lusinghiera). Abbellire è una delle classiche operazioni compiute dalla macchina fotografica e tende a stemperare la risposta morale a ciò che viene mostrato. Imbruttire, mostrare qualcosa al peggio, è una funzione più moderna. […] Perché possano denunciare e, se possibile, modificare un certo comportamento, le fotografie devono scioccare.

Lo shock può diventare familiare. Lo shock può esaurirsi. E anche se ciò non avviene, resta pur sempre la possibilità di non guardare. Le persone hanno tutti i mezzi per difendersi da ciò che le turba. […] E ciò pare normale, è semplice adattamento. Così come è possibile assuefarsi all’orrore nella vita reale, ci si può abituare all’orrore di certe immagini. […] L’assuefazione non è automatica, perché le immagini (portatili, inseribili) obbediscono a regole diverse da quelle a cui è soggetta la vita reale.

La familiarità di certe fotografie plasma la nostra conoscenza del presente e del passato più recente. […] un sentimento si cristallizza più facilmente attorno a un’immagine che a uno slogan verbale. Le fotografie contribuiscono a forgiare – e a sottoporre a revisione – il senso del passato più lontano, grazie allo shock postumo provocato dalla diffusione di immagini fino a quel momento sconosciute. Quelle che tutti sono in grado di riconoscere sono ormai parte costitutiva di ciò su cui una società decide, o dichiara di aver deciso, di riflettere. Tali idee vengono chiamate “memorie” ma, a lungo andare, questa è finzione.

Lo scopo perseguito nel creare pubblici repositori per queste e altre reliquie è quello di assicurarsi che i crimi in esse raffigurati continuino a essere presenti nella coscienza della gente. La definiamo memoria, ma in realtà si tratta di qualcosa di molto più complesso.

[…] Ma le fotografie che documentano la sofferenza e il martirio di un popolo non sono soltanto un memento di morte, sconfitta e persecuzione. Evocano anche il miracolo della sopravvivenza. Mirare alla perpetuazione della memoria significa, inevitabilmente, assumersi il compito di rinnovare continuamente, e di creare, una memoria – con l’aiuto, soprattutto, dell’impronta lasciata da immagini emblematiche. La gente vuole poter visitare – e rinfrescare – la propria memoria.

Le foto strazianti non perdono necessariamente la capacità di scioccare. Ma non sono di grande aiuto, se il nostro compito è quello di capire. Le fotografie fanno qualcos’altro: ci ossessionano.

A che cosa serve mostrarle? A risvegliare l’indignazione? A farci sentire “male”; cioè ad atterrirci e ad affliggerci? Ad aiutarci a compiangere? E’ davvero necessario guardarle, considerato che questi orrori appartengono al passato lontano e quindi impunibile? Diventiamo persone migliori dopo averle viste? Ci insegnano davvero qualcosa? O non confermano, piuttosto, ciò che già sappiamo (o vogliamo sapere)? […] Si disse allora: qualcuno potrebbe mettere in dubbio la necessità di questa macabra esposizione fotografica, nel timore che essa soddisfi appetiti voyeuristici e perpetui immagini della persecuzione dei neri o, semplicemente, ottunda la mente. Ciò nonostante, abbiamo l’obbligo morale di esaminare tali immagini. Fu poi sostenuto che il sottometterci a una prova così terribile ci avrebbe aiutato a comprendere che tali atrocità non furono atti commessi da “barbari” ma il riflesso di un’ideologia, il razzismo, che definendo una popolazione meno umana di un’altra legittima la tortura e lìomicidio. Ma forse gli autori di quegli atti erano barbari. Forse è proprio quello l’aspetto che di solito hanno i barbari.

Possiamo sentirci obbligati a guardare le fotografie che documentano grandi crimini e crudeltà. Ma dovremmo sentirci altrettanto obbligati a riflettere su quel che significa guardarle, sulla capacità di assimilare realmente ciò che mostrano. Non tutte le reazioni provocate da tali immagini sono controllate dalla ragione e dalla coscienza. […] anche le immagini ripugnanti possono affascinare. Tutti sanno che a rallentare il traffico davanti a un orribile incidente automobilistico non è soltanto la curiosità. In molti casi si tratta anche del desiderio di vedere qualcosa di raccapricciante. Definendoli “morbosi”, equipariamo tali desideri a rare aberrazioni, ma in realtà l’attrazione per spettacoli simili non è affatto rara e costituisce una perenne fonte di tormento interiore.

[…] Socrate platonico descrive come la ragione possa lasciarsi sopraffare da un desiderio indegno, che spinge l’individuo a infuriarsi con una parte della propria natura. Platone sviluppa una teoria tripartita delle dinamiche mentali che consiste di ragione, ira o indignazione, e appetito o desiderio – anticipando così lo schema freudiano di Super-io, Io ed Es (con la differenza che Platone colloca la ragione in cima, e la coscienza, rappresentata dall’indignazione, nella posizione mediana). […] Per illustrare la lotta tra ragione e desiderio, Platone […] sembra dare per scontata l’esistenza di un appetito per gli spettacoli di degradazione, sofferenza e mutilazione. La presenza sotterranea di un istinto così disprezzato va indubbiamente presa in considerazione quando si discute dell’effetto prodotto dalle immagini di atrocità.

[…] concezione della sofferenza, del dolore degli altri, profondamente radicata nel pensiero religioso, che associa il dolore al sacrificio, il sacrificio alla glorificazione – un’idea che non potrebbe essere più estranea alla sensibilità moderna, per la quale la sofferenza è un errore, un incidente o un crimine. Qualcosa a cui porre rimedio. Qualcosa da rifiutare. Qualcosa che fa sentire impotenti.

La gente perde interesse non soltanto perché la dieta di immagini a cui è costantemente sottoposta l’ha resa indifferente, ma anche perché ha paura. Come tutti sanno, il livello di violenza e sadismo accettabile nella cultura di massa è in continua crescita: film, televisione, fumetti, videogiochi. Immagini che quarant’anni fa avrebbero fatto rabbrividire e inorridire il pubblico oggi vengono guardate senza batter ciglio da ogni adolescente che affolla i multisala.

Se si diviene meno sensibili agli orrori di una guerra, qualunque guerra, è proprio perché si ha l’impressione che non possa essere fermata. La compassione è un’emozione instabile. Ha bisogno di essere tradotta in azione, altrimenti inaridisce.

Fino a quando proviamo compassione, ci sembra di non essere complici di ciò che ha causato la sofferenza. La compassione ci proclama innocenti, oltre che impotenti. E può quindi essere (a dispetto delle nostre migliori intenzioni) una reazione sconveniente se non del tutto inopportuna. Sarebbe meglio mettere da parte la compassione che accordiamo alle vittime della guerra e di politiche criminali per riflettere su come i nostri privilegi si collocano sulla carta geografica delle loro sofferenze e possono – in modi che preferiremmo non immaginare – essere connessi a tali sofferenze, dal momento che la ricchezza di alcuni può implicare l’indigenza di altri. Ma per un compito del genere le immagini dolorose e commoventi possono soltanto fornire una scintilla iniziale.

[…] l’attenzione del pubblico è manovrata da quella dei media – e, dunque, in maniera preponderante, dalle immagini. Se ci sono fotografie, una guerra diventa “reale”. […] decisivo influsso esercitato dalle immagini nell’individuare le catastrofi o le crisi a cui prestare attenzione, e nel dar forma alle nostre preoccupazioni e, in ultima analisi, alle valutazioni che diamo di un determinato conflitto. La seconda idea – che potrebbe sembrare opposta a quella appena descritta – sostiene che in un mondo saturo, anzi ipersaturo, di immagini diminuisce l’impatto di quelle che dovrebbero avere importanza: diventiamo insensibili. Alla fine tali immagini non fanno che renderci meno capaci di partecipare, di avvertire il pungolo della coscienza. […] un evento conosciuto attraverso le fotografie diviene certamente più reale di quanto lo sarebbe stato se non le avessimo mai viste, ma finisce per diventare meno reale quando si è ripetutamente esposti a quelle immagini. Nella stessa misura in cui creano la compassione, scrivevo, le fotografie contribuiscono a inaridirla. Ma è proprio così? Quando l’ho scritto ne ero convinta. Ma ora non ne sono più tanto sicura. Cosa prova, infatti, che le fotografie abbiano un impatto decrescente, che la nostra cultura dello spettacolo neutralizzi la forza morale delle immagini di atrocità?

[…] E’ molto più facile rivendicare, dalla propria poltrona, lontano dal pericolo, una posizione di superiorità. Del resto, chi deride lo sforzo di coloro che rendono testimonianza di un conflitto, definendolo “turismo di guerra”, esprime un giudizio ormai così diffuso da aver contagiato anche la discussione sulla fotografia di guerra come professione.
Persiste ancora l’idea che il desiderio di tali immagini sia abietto e volgare; che rappresenti una forma di sciacallaggio commerciale. […] capitava spesso di sentire, nel bel mezzo di un bombardamento o del fuoco del cecchino, un abitante della città che rivolgendosi ai fotoreporter, […], urlava: “State aspettando che scoppi un’altra bomba per fotografare qualche cadavere?” […] Nel corso del conflitto, la maggior parte dei tanti giornalisti esperti inviati a Sarajevo non è stata neutrale. E gli abitanti della città volevano che le condizioni in cui versavano fossero documentate da fotografie: le vittime sono interessate alla rappresentazione delle proprie sofferenze. Ma vogliono che queste sofferenza siano considerate uniche.

Lasciamoci ossessionare dalle immagini atroci. Anche se sono puramente simboliche e non possono in alcun modo abbracciare gran parte della realtà a cui si riferiscono, continuano ad assolvere una funzione vitale. Quelle immagini dicono: ecco ciò che gli esseri umani sono capaci di fare, ciò che – entusiasti e convinti di essere nel giusto – possono prestarsi a fare. Non dimenticatelo. […] Forse attribuiamo troppo valore alla memoria, e non abbastanza al pensiero. Ricordare è un atto etico, ha un valore etico in sé. Con nostro grande dolore, la memoria è l’unico grande legame che ci unisce ai morti.

Il troppo ricordare (gli antichi rancori […]) esaspera. Fare pace significa dimenticare. Per giungere a una riconciliazione è necessario che la memoria sia difettosa e limitata.